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  • Immagine del redattoreAlessandra Colombo

Dobbiamo davvero dire #andràtuttobene ai nostri figli?

Il titolo sembra volutamente distruttivista, ma non è una questione di ottimismo o pessimismo. Quanto pesa, sui bambini, la promessa dell'immortalità?


L'idea di base è assolutamente nobile e condivisibile: non far sentire ai bambini l'angoscia di questo momento storico tanto strano quanto ingovernabile. Ma, psicologicamente parlando, quanto fa bene negare l'esperienza della paura e dello sconforto?


 

Partiamo dall'inizio.


A fine febbraio/inizio marzo viene dichiarato l'inizio dello stop. Le scuole vengono momentaneamente sospese (e chi ha bambini sa che bacino di batteri, virus e parassiti possono potenzialmente essere) e viene promossa la didattica online laddove possibile. Vengono tuttavia esclusi da tutto i bambini nella fascia "fragile", quelli che si pongono tante domande a cui i genitori non sanno quanto "adulta" può essere la risposta. Ecco quindi comparire striscioni colorati con disegnini bellissimi pervasi di sole, apine, arcobaleni: andrà tutto bene.

A chi serve realmente sapere che andrà tutto bene? Al bambino o, viceversa, al genitore?


Quando il bambino chiede alla nonna di non lasciarlo mai e la nonna promette che vivrà fino a 120 anni, in quel momento avviene (assolutamente senza consapevolezza) una ferita nel bambino: la nonna promette, ma non può mantenere.

Quando noi promettiamo che andrà tutto bene ma la tv parla di morti, i genitori sono preoccupati, i nonni non si vedono da mesi... cosa stiamo dicendo a questi bambini?

Una delle riflessioni che mi ha colpito, nei primi anni di formazione in psicologia, fu la dissonanza emotiva di emozioni non ben delineate e spiegate al bambino. Immaginate la scena:

Una madre piange perché é molto triste per X o Y motivi. Il bambino si avvicina, la vede piangere e si preoccupa. Anzi, scusatemi. Diventa triste a sua volta: i bambini apprendono da noi un'empatia ancora non ben strutturata. Si sente improvvisamente triste, ma questa tristezza nasce apparentemente dal nulla (in realtà è un rispecchiamento empatico) e questa cosa spaventa anche un pochino, perché non si sa come gestirla. Chiede alla mamma. "Mamma sei triste?" (che non significa realmente il contenuto della domanda, ma si può leggere alla maniera di Winnicott come "mamma è forse tristezza quella che sento io e che senti tu?") "No tesoro, sono solo _____riempire a piacere______".


Questa esperienza genera confusione nel bambino e una sottesa legge generale: non si può parlare di tristezza (a volte in senso totalitario, MAI parlare di tristezza, a volte in senso selettivo, si può parlare di tristezza SOLO SE è vincolata a qualcosa di specifico).

In questo caso stiamo rischiando di dire una cosa molto specifica a questi bambini: non si può parlare di paura. Anzi, si rischia anche che il bambino apprenda che il genitore ha bisogno di sentire che andrà tutto bene, quindi il bambino non solo non può avere paura, ma non può nemmeno parlarne altrimenti il genitore si spaventerà.


Mi prometti che vivrai fino a 120 anni? No, ma ti prometto che cercherò di fare il possibile per stare qui il più a lungo.

Andrà tutto bene? Non lo so, non so se andrà tutto bene. Ma insieme possiamo fare il possibile, la nostra piccola parte. Non sarebbe quindi meglio scrivere, provocatoriamente, io mi sto impegnando per un futuro migliore? O qualsiasi altra formula che tenga in considerazione la rabbia, la paura, la noia... ma anche la responsabilità individuale e il potere personale che ognuno di noi ha.



Alessandra Colombo

Psicologa del Benessere

tel. 3318437155


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