Ebbene sì, ho subìto anche io la pressione sociale del correre a guardare #Joker al cinema, acclamato come il nuovo Taxi Driver - che io adoro.
Dire se sia o no al livello di #taxidriver non è compito mio (e sarebbe semplicemente un parere personale, non essendo io dell'ambito), ma mentre parlerei di una centratura sulla #società in taxi driver, preferirei parlare della centratura sull'#identità di Joker.
*per chi non avesse ancora visto il film: attenzione, spoiler
Nella prima ora di film ho percepito una tristezza pervasiva, mi faceva davvero tanta, tantissima pena. Le sue risate che paiono tutto fuorché risate, l'innesco del deficit neurologico in situazioni di forte imbarazzo, la sua difficoltà ad entrare in una relazione reale e soddisfacente, qualche bizzarria qua e là... personalmente, ecco perché non parlerei di Joker come unico frutto della società:
1. Il punto aperto sulla società
un punto aperto sulla società c'è, è tangibile e ci tocca tutti: quando la psicologa del servizio, evidentemente in Burnout e poco interessata all'umano davanti a lei comunica che non ci sarebbero più stati incontri né farmaci, lo comunica con rabbia sottesa e con frustrazione: "ci hanno tagliato i fondi". Beh, non serve andare a Gotham per vedere fondi tagliati alla sanità o la sanità che spende male i soldi, che non controlla i furti dei farmaci nei propri stock e chi più ne ha più ne metta.
Evidentemente la società ha sì un ruolo, ma un ruolo dove il singolo ha la sua parte e deve svolgerla senza appellarsi alla società cattiva solo quando conviene.
2. Arthur Fleck e la madre
Chi è Arthur? Bella domanda, non è chiaro nemmeno a lui ed è quello che più ci tocca qualcosa nel profondo. In un tripudio di contraddizioni non è più nemmeno sicuro di esistere: è il vorrei ma non posso. Il sogno di finire come un grande comico in tv affiancato ad una realtà ben più scarna, un'identità falsata data dallo sguardo distorto di una madre: la madre non ha capito che il figlio ride per una malattia neurologica specifica (tale Sindrome #Pseudobulbare) che mantiene della risata solo i caratteri esterni, e nella sua letale ingenuità lo considera un bambino speciale il cui scopo è rallegrare il mondo.
La madre è una signora inizialmente simpatica e senza risorse, percepita come una anziana con qualche bizzarria nelle modalità. Piano piano, però, si fa largo l'immagine (non molto approfondita purtroppo) di una persona fortemente egocentrata nelle sue convinzioni grandiose e un po' fabulate (irreali): sogna di essere stata l'amante del candidato sindaco, di aver avuto con lui un figlio (Arthur) e che il candidato abbia quindi un dovere morale di prendersi cura di loro.
La madre, inoltre, passa il tempo a idolatrare e svalutare il figlio sempre con lo stesso tono di voce: un istante prima lui è speciale e destinato a grandi cose, un istante dopo è una persona che non può fare il comico perchè non fa assolutamente ridere. La stessa contraddizione la vive Arthur nella sua quotidianità: sogna grandiosità, un posto di stima e rispetto nello show comico per eccellenza (condotto da De Niro, come reminder di Taxi Driver), una relazione con l'attraente mamma single che gli ha mostrato gentilezza... ma viene picchiato dai ragazzini in un vicolo e viene definito strano dai suoi stessi colleghi di lavoro. Certo, la risata non aiuta, ma è forse la cosa che più Arthur tiene stretta a sé: è l'unica parte della sua identità che riconosce come tale.
3. La morte del falso-sé e la nascita di Joker
Che Arthur abbia qualche tratto di un sé grandioso l'abbiamo capito, accompagnato anche da sogni lucidi e un misto di difficoltà a scindere il reale dall'immaginato che accompagna lo spettatore per tutto il film. Possiamo quindi immaginare che sia un po' quel senso di alienazione che prova il protagonista per tutta la sua vita? Probabilmente sì. Non si sa chi sia, da dove venga, chi sia il padre (tanto che all'inizio immagina anche - con un moto di profonda tenerezza - che il famoso comico affermi di aver voluto un figlio come lui) e la madre vive in un mondo di detto e non detto, dove la realtà e la finzione corrono sulla stessa linea senza una demarcazione precisa. Ma quando "muore" Arthur Fleck?
Muore quando si instilla in lui il dubbio del falso: il dubbio che la madre sia davvero un po' delirante, il dubbio di non essere davvero chi la madre pensa che sia... ma che ci sia tutta una identità secondaria, che è sempre rimasta oscurata da questo sé ideale. Arthur comincia a ottenere la gratificazione narcisistica dall'omicidio che, per quanto l'abbia scosso profondamente, suscita nel mondo un moto di rivolta che lo fa sentire profondamente importante, di esistere nella forma e nei modi più simili a quanto lui desiderasse.
Nel mentre la sua ferita cresce: non è figlio di Wayne, ha una lesione neurologica che genera questa risata che tuttavia non è una risata reale (ma la madre spesso sembra non voler capire), non è molto bravo a fare il comico, non capisce le battute e le astrazioni altrui, non è considerato dalla ragazza della porta accanto... e peggio ancora la madre non l'ha mai difeso dagli abusi - che lui ha rimosso -, non l'ha mai tutelato nei confronti dei suoi compagni violenti e l'ha usato unicamente come oggetto narcisistico per auto-gratificarsi nella sua fantasia di amante di Wayne. Se non sei amato nemmeno da tua madre in quanto umano e non oggetto, da chi puoi essere amato? Dalla folla! Anche se l'amore, o l'idolatria, ha spesso forme misteriose: anche dalla folla Joker è amato come proiezione di sè, come simbolo o oggetto, non come Arthur. Ecco quindi che l'unica vera identità di Joker, l'unica vera realtà percepita, è quella di un Joker assassino, forse paladino del sottosopra di Gotham, ma profondamente mosso dalla gratificazione oggettuale (toh va, anche lui) di essere eretto a status symbol da una folla urlante.
La rivincita sì, ma quella in fondo in fondo un po' narcisistica: al posto di uccidersi nello show come preventivato, uccide il presentatore.
4. Gli omicidi
Ho letto un interessante articolo americano che indagava su quale potesse essere la patologia psichiatrica insita in Arthur Fleck, se fosse X o Y o ancora tratti di Z. Per quanto queste supposizioni siano clinicamente interessanti (potremmo dire che sollecitano anche quella parte più morbosa di noi che vuole catalogare e conoscere tutto), c'è da dire che Arthur, come ognuno di noi, è in primis una persona. Una persona che, data la condizione della madre, non ha avuto una teoria della mente sufficientemente sviluppata per capire e comprendere anche lo stato d'animo e le emozioni altrui - così come il sentire rimorso per la condizione umana negata nell'omicidio: non tanto del primo, che potremmo inserire nell'autodifesa e nell'esasperazione, quanto nei seguenti.
Se mettiamo questo filtro ad una persona che vive alienata dal mondo, in una dimensione di incomprensione tra sè e il resto del mondo (lo dimostrano le battute a cui ride perchè ridono gli altri), con una dose di ferita data dallo scoprire in modo traumatico di essere profondamente solo al mondo - e nemmeno la madre si è mai realmente presa cura di lui - allora eccoci, abbiamo creato un cocktail esplosivo.
5. Si sarebbe potuto evitare?
"se avessi, se fossi e se potessi erano tre fessi...."
Facciamo finta che sia qualcosa successo realmente. Fattibile, verosimile. E' pieno di persone con storie almeno marginalmente simili a quella di Arthur.
Facciamo finta di voler attribuire colpe. Ci sta. La colpa non è tanto della società, di Gotham o dei suoi supertopi, ma del meccanismo che Bandura definì come disimpegno morale. Gotham non è colpevole in quanto Gotham, il candidato non è colpevole in quanto "testa" di una fazione condivisibile o no. Il colpevole è ognuno. Sono i ragazzini che rubano il cartello ad Arthur, ma lo sono anche le persone - come noi - che camminano e non fanno nulla. Sono i professionisti che non si impegnano a fondo nel loro lavoro capendo con chi fanno fatica a lavorare ma anche i dirigenti che non investono nel capitale umano e nella prevenzione del burnout. Sono le persone come me, come voi, come tutti, che disinvestono nel ruolo di cittadino attivo nella società e attribuiscono alla società un valore individuale e magico che deve essere pronto a soddisfare di diritto i nostri bisogni. E come sempre la sottile linea di confine tra diritti e doveri è quanto una persona sia realmente in grado di alzare lo sguardo dal sè e guardare anche intorno, creare un unione di tanti piccoli sè.
La mia profonda commozione ed empatia va tuttavia nella parte dove Arthur scrive che la cosa peggiore dei problemi psichici è il fatto che le persone vorrebbero che tu ti comportassi come se non li avessi. Beh, non è raro sentirti dire questo anche in colloquio e spesso è già solo questa una bruttissima sensazione di solitudine.
Arthur, in conclusione, ha un sacco di problemi, è un trauma-survivor e ne ha riportato effetti non solo psicologici, ma anche fisici. Ha un legame di co-dipendenza con una madre delirante e narcisista (con tuttavia delle modalità che te la fanno vedere come senza risorse, e quindi suscitano tutta una serie di sensi di colpa) e infine ha una chiara difficoltà a sopperire alle delusioni e alla frustrazione - che non solo scatena la sindrome pseudo-bulbare, ma anche tutta la componente psicotica che non tiene più a bada coi farmaci (non più reperibili dopo il taglio dei fondi della sanità). Insomma, se dovessimo pensare a questa situazione nella realtà sarebbe sicuramente una realtà difficile, dolorosa, potenzialmente letale... ma affrontabile, anche se nei limiti e nelle volontà del singolo.
Ma siamo in Italia: anche senza fondi hai comunque accesso alle cure primarie, i farmaci di quel tipo esistono e nel peggiore dei casi puoi chiedere un ricovero volontario. Ci sono sicuramente spunti da considerare: cosa può fare la società (sempre composta da ognuno di noi) per tutelare anche gli altri da una persona potenzialmente pericolosa come Arthur? Come si può intervenire? Sono necessarie nuove forme di cura residenziale a lunga permanenza per adulti con problemi psichici e con difficoltà di auto-gestione (non solo come lo intendiamo, ma anche autogestione economica, sociale... nei gradini sopra a quello primario della piramide di Maslow)? Sono sicuramente degli spunti che abbiamo il dovere di considerare.
Insomma, questi sono stati i miei spunti di riflessione, clinici sì ma non troppo.
Sicuramente interessanti per sviluppare delle idee di "mondo possibile".
E voi? cosa vi ha colpito?
cosa ne pensate?
Dott.ssa Alessandra Colombo
Psicologa del Benessere
Specializzanda in Psicoterapia Rogersiana (Umanistico-Esistenziale)
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