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  • Immagine del redattoreAlessandra Colombo

Cosa posso fare se un mio caro ha avuto un ICTUS?

Nel nostro profondo vorremmo poter fare di tutto, anche i miracoli, ma cosa, concretamente, possiamo fare per agevolare il cammino di chi ci sta vicino?  



I giorni immediatamente successivi

Aiuto! Qualcuno a noi vicino ha avuto un ictus - o patologie che portano a danni localizzati analoghi, come trauma cranico severo, lesioni, aneurisma ecc. - e i soccorsi sono già arrivati. La persona è stata inserita nella stroke unit o nel reparto di urgenza ed è costantemente monitorata.  Ma dentro di noi sentiamo la necessità di far sentire che ci siamo, che bisogna in qualche modo lottare per quanto possibile, ma più che stare molte ore nel reparto e guardarlo/a in modo compassionevole non riusciamo a fare.  Ben presto subentra quindi la frustrazione, l'insoddisfazione e il sentimento di voler fare qualcosa ma non sapere come o cosa.  

Emerge quindi LA domanda: 

cosa possiamo fare? in che modo possiamo aiutare la persona a sentirsi accompagnata in questo momento difficile?


Cosa dobbiamo sapere

Le lesioni cerebrali in cui si incorre dopo un ictus (o una lesione dagli stessi effetti) non sono sempre "rimarginabili", non sempre vi è una totale ripresa e in questo incide molto anche l'età. Il fattore cruciale, tuttavia, si instaura nella plasticità neuronale e nella capacità che ha il cervello di "pensare criticamente" e percorrere altre strade. Questa plasticità la si può allenare fin dai primi anni dell'invecchiamento (che, secondo il limite di Hayflick corrisponde addirittura ai 20-30 anni) e rimane un forte bagaglio della nostra mente.


SEI cose che puoi fare per SUPPORTARE il tuo CARO:


1. Sono qui e non ti lascio.

Trovarsi di colpo in una condizione di dipendenza da qualcuno o qualcosa (alla peggio anche dalle macchine) pone immediatamente dei sentimenti contrastanti: da un lato ci sentiamo arrabbiati, in colpa e feriti, vorremmo allontanare tutti per non condividere questo stato di debolezza che ci fa sentire fragili e densi di vergogna; dall'altro ci sentiamo impauriti e dipendenti, e desideriamo profondamente che chi ci ama non ci lasci proprio ora.  Cosa fare per iniziare questo percorso? Provate a comunicare al vostro caro che siete lì, vicino, e che non lo abbandonerete. Le proverete tutte per farlo comunicare con voi e, anche se sarà stancante e a volte insoddisfacente, ci riproverete ogni giorno.  La vita, si sa, è imprevedibile e questo non significa che sicuramente andrà tutto bene o che sicuramente andrà tutto male.  Ma sicuramente unirà il rapporto e creerà quelle stabili basi su cui provare a muovere nuovi passi e nuovi obbiettivi, e sicuramente farà sentire la persona ferita meno sola e con un motivo in più per cui farsi forza.


2. Comunicare. E, se necessario, trovare un nuovo linguaggio comune.

Sia che la persona rimanga cosciente o no, è importante tentare un ponte comunicativo.  Non sempre andrà a buon fine e talvolta sembrerà anche parecchio confuso, ma rende l'altra persona protagonista della sua forza di guarigione. Sentirsi efficaci e con un potere ci fa sentire vivi, e in queste condizioni non è sempre così scontato.  Quando il linguaggio rimane è sicuramente più fattibile, quando emergono condizioni di afasia (ovvero disturbi del linguaggio) e mutismo derivato da lesioni è necessario creare un modo di comunicare, che sia con gli occhi, con le mani o con i piedi.  L'afasia ci pone in una condizione di isolamento totale. Noi, esseri sociali, ci ritroviamo di colpo a parlare un'altra lingua o a non parlare affatto e non riusciamo a dire a chi sta intorno che, porca miseria, noi siamo rimasti qui e non ce ne vogliamo andare.  Anche solo creare un semplice sistema di risposta si/no è sufficiente a non far sentire l'altro come il "Major Tom", perso nello spazio senza più alcun tipo di feedback dalla terraferma, in attesa dell'inesorabile. Come fare? Creare delle domande semplici la cui risposta può essere sì o no, e che tale risposta possa essere comunicata anche attraverso il battito degli occhi, la stretta di una mano o l'impercettibile movimento del piede. Impariamo ad osservare la persona nel suo nuovo guscio: non tutto funziona come dovrebbe, è un'astronave che si è impattata al suolo, ma non per questo l'elettronica al suo interno è completamente distrutta. Impariamo a capire quali muscoli può muovere, che cosa può dire o non dire, come si può esporre nella comunicazione anche sfruttando la mimica o la gestualità che era solito/a avere prima dell'ictus o del danno cerebrale. Alcuni esempi:

"mi senti? stringimi la mano se è sì" "ti ricordi cosa è successo? stringi gli occhi se sì" "fai un movimento se riesci a sentire la mia voce"

3. Porre degli obbiettivi

Ciò che ci fa fare cose incredibili, da bambini, è la promessa di qualcosa di bello. E questa cosa rimane anche da grandi! Avere degli obbiettivi è ciò che ci fa muovere: allenarsi per avere un bel fisico, correre per fare la maratona, scalare una vetta...  ricordiamoci che avere degli obbiettivi è anche ciò che fa muovere l'animo.  Ricordiamoci, tuttavia, una cosa fondamentale: gli obbiettivi devono essere realistici, non qualcosa che la persona non avrebbe fatto nemmeno in totale salute fisica.  Alcuni esempi: 

"dai che tra un paio di mesi facciamo Pasqua da me.. non importa se magari ancora non cammini, ho l'ascensore nel palazzo.. in questi mesi ci dovremo impegnare per restare in piedi, così mentre qualcuno porta su la sedia a rotelle a parte tu stai in piedi 2 secondi insieme a me. Proveremo insieme a fare questa cosa, cosa ne pensi?" "Quando tuo nipote si diplomerà andremo fuori a mangiare! E tu verrai a festeggiare, non importa se magari dovremo far frullare tutto, faremo fare i tuoi piatti preferiti."

4. Gli adulti diventano bambini

Cosa accomuna le due cose? La consapevolezza di dover dipendere, anche solo momentaneamente, da un altro adulto responsabile del nostro benessere psicofisico.  La persona comincerà quindi a richiedere più attenzioni, a volere più cure e più affetto, talvolta a mentire per ottenere anche piccole attenzioni: è una condizione frustrante sia dal punto di vista dell'assistito, sia dal famigliare.  Se la situazione dovesse essere pesante, il consiglio è quello di rivolgersi ad un professionista specializzato in questo per un supporto psicologico allo stress che questa nuova condizione di vita causa nella famiglia.


5. Spiegate la situazione e rinforzate i piccoli passi 

L'arrivo di una situazione di questo tipo è un trauma e come tale talvolta la persona "colpita" non comprende immediatamente l'entità del danno e crede di poter riprendere immediatamente tutto ciò che faceva prima. Talvolta si cerca di parlare pur non sapendo articolare i suoni, si cerca di riprendere il moto dove ancora non si ha ripreso consapevolezza nè effettiva competenza psicomotoria.  Si può cominciare, ad esempio, dicendo:

"ti ricordi cosa è avvenuto?" "S/N" "non sei stato bene, hai avuto un problema e adesso la situazione è questa: (...) ma non ti preoccupare, ci stiamo assicurando che tu riceva le migliori cure e noi saremo in prima linea per aiutarti a non fare tutto da solo"

E' consigliabile non mentire troppo sullo stato di salute, non si può parlare di influenze o debolezze se la persona è chiaramente cosciente del proprio stato di salute: il rischio sarebbe di perdere completamente credibilità e farla sentire ancora più sola. Si può, tuttavia, mentire su piccole cose, chiaramente a buon fine: mentire sull'utilizzo del catetere, ad esempio, può essere utile per coloro i quali sono sempre stati completamente indipendenti e si ritrovano a doversi portare dietro il sacchetto. Se questa condizione è particolarmente delicata per loro, si può dire ad esempio che si tratta di una soluzione temporanea ma che piano piano si faranno delle prove, solo che ad ora è più sicuro così (la vita è di per sè costantemente immutabile, quindi mai dire mai).

E' importantissimo rinforzare i piccoli passi, anche se impercettibili. La persona si sentirà completamente inefficace e di umore basso, comprendere gli enormi sforzi che compie ogni giorno, anche controvoglia, è il modo migliore per riconoscere il suo ruolo unico e centrale nel processo di guarigione.


6. La speranza

La speranza disillusa è importantissima: disillusione per evitare un distacco dalla realtà delle cose, fino alla negazione dell malattia, ma speranza poichè siamo noi coloro che hanno conosciuto per anni il proprio caro e ne conoscono le sfumature caratteriali e i movimenti più comuni. In poche parole, una fiducia nella sua potenziale ripresa. Sentire che voi in prima linea sperate e non avete mollato il colpo li farà sentire ancora supportati nella gara più grande della loro vita.  Fate ascoltare loro la musica che ascoltavate insieme, i profumi che sono stati importanti nella loro esperienza e raccontate loro ogni giorno ciò che avete fatto nel lungo tempo che avete passato assieme: non dimenticate mai, a volte, di provare a chiedere "cosa ne pensi?". Se avranno modo di farvelo capire, ci proveranno. 




Se dopo questo lungo elenco avete ancora voglia di leggere, vi riporto il racconto di una esperienza personale:


Il caso della nonna Rina (ictus) e della zia Bruna (Alzheimer)

"E' difficile spiegare quanto sia fondamentale una psicoterapia di approccio umanistico su situazioni così complesse. La chiave centrale è il contatto umano.. quanto essere stranieri nel proprio corpo e nello spazio circostante possa essere frustrante di per sé e necessitare conforto, sicurezza.. in una parola supporto psicologico. Ho mia zia che ha l'Alzheimer e ogni volta che sorride mi piace pensare che sia perché mi riconosce come qualcuno che le vuole bene. Non parla più da un anno circa, ma ogni tanto mi sussurra "ciao" ed è il nostro segreto. Lei non ha figli e quando vado a trovare la nonna (che ha avuto un ictus, il destino crudele le ha lasciato la mente e tolto la parola) la vedo ogni giorno nello stesso centro, che ho scelto con cura per l'approccio umano. Le ricordo chi sono, perché sono li..le ricordo le cose che facevamo insieme. E anche se le sente per la prima volta, il suo volto si illumina a giorno, come se le avesse rivissute.. alza lo sguardo e mi riconosce come qualcuno di importante per un istante. Poi si spegne.  Ma io so che quello è il piccolo miracolo della cura. E con cura intendo la cura umana.  Gli umani sono come dei bonsai, tirano avanti anche da soli. Ma perdono foglie, il terreno a volte marcisce e a volte si secca.. non diventano alberi leggendari ma tirano avanti. Se si vuole un piccolo capolavoro bisogna parlare ogni giorno alle foglie. Controllare se stanno bene, intimidire appena il terreno, fargli sentire la musica. Stare con loro. E anche cosi a volte soffrono, ma lo si vede subito e appena perdono un paio di foglie si raddrizza il tiro.

Ti racconto un altro settore dove la cura e la parola sono state fondamentali: l'ictus di mia nonna. 87 anni, ictus devastante ad agosto, ci preannunciano una morte lenta e dolorosa, un'anima chiusa in uno scafandro e buttata nello spazio vuoto.  Ma io non la lascio.  Io so che mi sente e se il dito è l'unica cosa che riesce a controllare allora io la farò parlare così. Il dito diventa la mano. Le dico di stringermi forte la mano se mi sente... la stringe. Le dico se ricorda cosa le è successo e le scende una lacrima dagli occhi chiusi. Stringe. Le dico che io non la abbandono, che troveremo un modo di stare insieme e di parlare. Le porto il peluche che ricorda il mio coniglietto e lei lo accarezza. Anche nella malattia rimane la nonna più bella del mondo.  Passano le settimane e ci dicono che visto che rimane stabile non morirà a breve, forse, ma sicuramente non riprenderà nulla. Le fanno la PEG (alimentazione forzata) e il catetere.. E spezza il cuore vederla con queste cose attaccate, che non riesce ad aprire la bocca.. piange e dorme di nuovo. Ma le dico che faremo tutto questo insieme.. che ci sono io con lei. Vado in ospedale ogni mattina alle 7 e ci sto fino al momento di scappare a lavoro. Esco da lavoro e torno da lei. Questa cosa dura per due mesi. Poi si libera un posto nella struttura che volevo.. visite libere, approccio umano.. a posto, che il miracolo faccia il suo corso. Credo talmente tanto in questa cosa che io non spero migliori, ne sono certa.  Le ho fatto dire Ale, lei ha capito che parla in modo strano ma questo non la abbatte più. Spesso fa discorsi interi che sembra chewbecca, mi fa sganasciare e anche lei ride di cosa ne esce. Ora mangia. Frullato, certo, ma mangia senza alimentazione forzata. Non usa più catetere. Le ho detto che avrei fatto di tutto perché lei mi vedesse sposarmi. Si è alzata in piedi. Gli infermieri sono attoniti, adesso la devono solo tenere per un braccio che in bagno ci va in piedi, con piccoli passetti.. 88 anni a giugno e si sta ripigliando da un ictus del genere. Non so quanto tempo avrò ancora davanti a me insieme a lei, ma questo è il miracolo dell'avere cura... per quanto possibile, nella misura del corpo e della malattia, la mente ha un potere eccezionale che ancora si fatica ad accettare e si riduce a computazione e funzioni causa-effetto.. dimenticandosi che è la mente nel suo splendore che ha ispirato la computazione. Lo so che è utopico, ma se davvero si capisse il potere di un supporto psicologico anche a chi si considera un "malato spacciato" allora saremmo davvero di fronte al futuro." [ 11 gennaio 2018 ] 



Se anche voi state vivendo o avete vissuto una situazione analoga e volete chiedere informazioni o raccontare la vostra esperienza, sentitevi liberi di commentare o scrivermi via email: alessandracolombopsicologa@gmail.com


Articolo revisionato e originariamente scritto da me per @psicofficine.

Dott.ssa Alessandra Colombo Psicologa e Specializzanda in Psicoterapia Rogersiana.

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